Cataloghi d'arte
Rimini nei disegni dei Liverani (1844-1867)
di Franco Pozzi, Giulio Zavatta, Cristina Ravara Montebelli
Presentazione a cura di Alessandro Giovanardi
I Liverani di Faenza: artisti strettamente imparentati. Romolo e suo figlio Tancredi, piccola famigliola per anni viaggiante in gran parte d’Italia a servizio dell’arte teatrale, di quel mestiere della scenografia in cui diventarono stimatissimi. Di teatro in teatro, spesso con tappe così poco distanti tra loro da poterle percorrere nel giro di un giorno, documentarono nei loro taccuini ‘di lavoro’ scorci di paesi e città, vedute, monumenti e paesaggi con una precisione quasi fotografica quando ancora la fotografia era in embrione. E poi Antonio, fratello maggiore del primo e dunque zio del secondo; tra i tre quello rimasto più in ombra e che ci ha lasciato, comunque, testimonianze enormi di un grande lavoro come pittore e ornatista operante nelle residenze delle maggiori famiglie patrizie, e non solo, del proprio tempo. Una ristretta e fidatissima bottega a conduzione famigliare, come è stata definita, che ci fa conoscere una Rimini in gran parte inedita attraverso quasi cinquanta tavole prodotte tra il 1844 e il 1867 e divise oggi tra la Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” di Roma, la Biblioteca Comunale di Forlì e la Pinacoteca Comunale di Faenza. Una Rimini ottocentesca che, pur se nella realtà, chiassosa città operosa, qui è calata in una silenziosa pace metafisica che quasi frastorna, luogo che pare disabitato e composto unicamente di edifici, fasci di luce e ombre, piante e cieli spesso nuvolosi. Città precisa nella sua riproduzione ma mancante di umani o animali passeggianti in strada, stazionanti all’angolo di una piazza o lavoranti sulle banchine del porto. Mostrata attraverso i suoi monumenti più noti e da vedute talmente inusuali da risultare strabilianti, in cui ci si perde facilmente nel gioco della ricerca del più piccolo particolare: un muro sbrecciato, un lavatoio rovinato, un archetto gotico rimasto imprigionato nelle mura o il profilo delle alture più prossime con la sua corona, che pare lontana, di campanili e fortezze.
Gli autori
Franco Pozzi, nato nel 1966 a Rimini dove vive, diplomato in pittura all'Accademia di Belle Arti di Ravenna espone nell'ambito di mostre collettive e personali. Nel 2007 è stato invitato in un progetto collaterale alla 52° edizione della Biennale di Venezia nell'ambito delle “100 Giornate in difesa della natura” dedicate alla figura di Joseph Beuys. Nel 2008 è ospite della XV Quadriennale di Roma. Nel 2005 partecipa al Premio Giovani artisti Lissone. Tra le mostre personali, 2005 Vegeto, Galleria dell'Immagine, Rimini, 2004 Luminitza, Chiesa di S. Marina, Novafeltria (PU), 2003 Solve et coagula, Palazzo del Ridotto, Cesena, 2000 In anticipo, Galleria dell'Immagine, Rimini. Nel 2014 partecipa alla prima edizione della Biennale del Disegno di Rimini. Convinto che la pittura, fin dalla sua leggendaria nascita narrata da Plinio il Vecchio nella Storia Naturale, si confronti col bisogno di trattenere il ricordo, negli ultimi anni (forse da sempre) costruisce memorabilia, omaggi dichiarati alle figure della sua storia dell'arte.
Giulio Zavatta storico dell’arte, professore associato di museologia e critica artistica e del restauro presso l’Università Cà Foscari di Venezia. Nel 2001-2002 ha conseguito il diploma di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dal 2005 al 2009 ha svolto numerosi incarichi presso la Soprintendenza BSAE di Modena e Reggio Emilia. Nel 2006, insieme a Alessandra Bigi e Claudio Franzoni, ha fondato e cura scientificamente e redazionalmente la rivista “Taccuini d’Arte”. È membro del comitato scientifico o di redazione delle riviste "Venezia Arti", "Romagna Arte e Storia" e "Studi Veronesi". Nel giugno 2013 ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Verona. Da dicembre 2012 è membro del comitato promotore e scientifico della Biennale del Disegno di Rimini. Vanta numerose pubblicazioni nell’ambito dell’arte moderna, con specifico riguardo per il disegno antico e storia dell’architettura.
Cristina Ravara Montebelli, archeologa di professione con esperienza ventennale, organizzatrice di mostre e convegni. Da anni è impegnata in ricerche d'archivio riguardanti l'archeologia, il collezionismo e la storia della provincia riminese e della Repubblica di San Marino. Ha partecipato in qualità di ricercatrice a Progetti Europei (ROMIT, ADRIAS, B.A.R.C.A), come relatrice a Convegni Nazionali ed Internazionali, in veste di docente a Seminari universitari. È cultore della materia (Topografia antica) presso il Dipartimento Beni Culturali, Università di Bologna, Campus di Ravenna. Ha al suo attivo una cinquantina di articoli scientifici, varie monografie e la curatela di volumi collettanei.
2024
Pagine 126
Versione cartacea € 30,00
ISBN 979-12-80232-85-4
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RASSEGNA STAMPA
Presentazione a cura di Alessandro Giovanardi
I Liverani di Faenza: artisti strettamente imparentati. Romolo e suo figlio Tancredi, piccola famigliola per anni viaggiante in gran parte d’Italia a servizio dell’arte teatrale, di quel mestiere della scenografia in cui diventarono stimatissimi. Di teatro in teatro, spesso con tappe così poco distanti tra loro da poterle percorrere nel giro di un giorno, documentarono nei loro taccuini ‘di lavoro’ scorci di paesi e città, vedute, monumenti e paesaggi con una precisione quasi fotografica quando ancora la fotografia era in embrione. E poi Antonio, fratello maggiore del primo e dunque zio del secondo; tra i tre quello rimasto più in ombra e che ci ha lasciato, comunque, testimonianze enormi di un grande lavoro come pittore e ornatista operante nelle residenze delle maggiori famiglie patrizie, e non solo, del proprio tempo. Una ristretta e fidatissima bottega a conduzione famigliare, come è stata definita, che ci fa conoscere una Rimini in gran parte inedita attraverso quasi cinquanta tavole prodotte tra il 1844 e il 1867 e divise oggi tra la Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” di Roma, la Biblioteca Comunale di Forlì e la Pinacoteca Comunale di Faenza. Una Rimini ottocentesca che, pur se nella realtà, chiassosa città operosa, qui è calata in una silenziosa pace metafisica che quasi frastorna, luogo che pare disabitato e composto unicamente di edifici, fasci di luce e ombre, piante e cieli spesso nuvolosi. Città precisa nella sua riproduzione ma mancante di umani o animali passeggianti in strada, stazionanti all’angolo di una piazza o lavoranti sulle banchine del porto. Mostrata attraverso i suoi monumenti più noti e da vedute talmente inusuali da risultare strabilianti, in cui ci si perde facilmente nel gioco della ricerca del più piccolo particolare: un muro sbrecciato, un lavatoio rovinato, un archetto gotico rimasto imprigionato nelle mura o il profilo delle alture più prossime con la sua corona, che pare lontana, di campanili e fortezze.
Gli autori
Franco Pozzi, nato nel 1966 a Rimini dove vive, diplomato in pittura all'Accademia di Belle Arti di Ravenna espone nell'ambito di mostre collettive e personali. Nel 2007 è stato invitato in un progetto collaterale alla 52° edizione della Biennale di Venezia nell'ambito delle “100 Giornate in difesa della natura” dedicate alla figura di Joseph Beuys. Nel 2008 è ospite della XV Quadriennale di Roma. Nel 2005 partecipa al Premio Giovani artisti Lissone. Tra le mostre personali, 2005 Vegeto, Galleria dell'Immagine, Rimini, 2004 Luminitza, Chiesa di S. Marina, Novafeltria (PU), 2003 Solve et coagula, Palazzo del Ridotto, Cesena, 2000 In anticipo, Galleria dell'Immagine, Rimini. Nel 2014 partecipa alla prima edizione della Biennale del Disegno di Rimini. Convinto che la pittura, fin dalla sua leggendaria nascita narrata da Plinio il Vecchio nella Storia Naturale, si confronti col bisogno di trattenere il ricordo, negli ultimi anni (forse da sempre) costruisce memorabilia, omaggi dichiarati alle figure della sua storia dell'arte.
Giulio Zavatta storico dell’arte, professore associato di museologia e critica artistica e del restauro presso l’Università Cà Foscari di Venezia. Nel 2001-2002 ha conseguito il diploma di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dal 2005 al 2009 ha svolto numerosi incarichi presso la Soprintendenza BSAE di Modena e Reggio Emilia. Nel 2006, insieme a Alessandra Bigi e Claudio Franzoni, ha fondato e cura scientificamente e redazionalmente la rivista “Taccuini d’Arte”. È membro del comitato scientifico o di redazione delle riviste "Venezia Arti", "Romagna Arte e Storia" e "Studi Veronesi". Nel giugno 2013 ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Verona. Da dicembre 2012 è membro del comitato promotore e scientifico della Biennale del Disegno di Rimini. Vanta numerose pubblicazioni nell’ambito dell’arte moderna, con specifico riguardo per il disegno antico e storia dell’architettura.
Cristina Ravara Montebelli, archeologa di professione con esperienza ventennale, organizzatrice di mostre e convegni. Da anni è impegnata in ricerche d'archivio riguardanti l'archeologia, il collezionismo e la storia della provincia riminese e della Repubblica di San Marino. Ha partecipato in qualità di ricercatrice a Progetti Europei (ROMIT, ADRIAS, B.A.R.C.A), come relatrice a Convegni Nazionali ed Internazionali, in veste di docente a Seminari universitari. È cultore della materia (Topografia antica) presso il Dipartimento Beni Culturali, Università di Bologna, Campus di Ravenna. Ha al suo attivo una cinquantina di articoli scientifici, varie monografie e la curatela di volumi collettanei.
2024
Pagine 126
Versione cartacea € 30,00
ISBN 979-12-80232-85-4
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RASSEGNA STAMPA
San Marino Paesaggi laterali
Visioni sul paesaggio contemporaneo sammarinese
di Massimo Salvucci
[...] Un nuovo sguardo, disincantato e a volte ironico, ma anche empatico e coinvolto, interessato alle imperfezioni ed alle fragilità dei posti dell’uomo nel mondo, marcati dalla sua occupazione.
La ricerca di una poetica possibile dentro un ordine parallelo con diverse gerarchie estetiche, un minimalismo introverso che è anche un rifugio, il bisogno di osservare con una nuova verginità impossibile.
Prelevare senza regole figure dal disordine, per proporne una sorta di “ready-made” imparziale e livellante. San Marino, con un abitato che ha dilagato in una campagna mossa ed articolata, è un habitat privilegiato per situazioni che vanno dalle architetture temporanee a secco con materiali anche di risulta, ad accumuli conservativi spesso gestiti con grande cura e reiterazioni generazionali.
Ma anche giardini decorati votivamente con un’impudicizia esplosiva figlia del benessere e dell’esuberanza del vivere, convivenze architettoniche spudorate, ritratti di automobili, bene iconico ed indispensabile; San Marino insomma come “iper Romagna”, anch’essa figlia di un certo “american way of life”, dove la vita lungo la strada si manifesta attraverso richiami e segnali identitari.
Un territorio circoscritto ma esaustivo meno strangolato da regole e normative sempre più esigenti.
Il monte Titano d’altra parte, per le sue bellezze naturalistiche e monumentali, è stato ed è ampiamente fotografato; meno indagata mi pare proprio questa realtà interstiziale, privata ma anche pubblica, prova di una vitalità creativa ed autoreferenziale: una strategia di sopravvivenza.
L'autore
Massimo Salvucci nasce inavvertitamente a Roma nel 1963, ma fugge appena possibile inseguendo studi disordinati di grafica e design. Negli anni '90 lavora come fotografo a Milano dove inizia anche la trentennale collaborazione con Gianluigi Toccafondo e l'attività per la televisione.
Fonda lo Studio Nino con lo stesso Toccafondo, Frederic Fasano ed Enrico Gusso, ed in seguito a Roma la Limbo film con Stefano Pistolini. Editor per predisposizione artigianale ma fotografo di nascita, deve molto a suo nonno dal quale purtroppo ha ereditato anche la scarsa attitudine per gli affari.
2018
Pagine 166
Versione cartacea € 15,00
ISBN 978-88-98275-76-2
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[...] Un nuovo sguardo, disincantato e a volte ironico, ma anche empatico e coinvolto, interessato alle imperfezioni ed alle fragilità dei posti dell’uomo nel mondo, marcati dalla sua occupazione.
La ricerca di una poetica possibile dentro un ordine parallelo con diverse gerarchie estetiche, un minimalismo introverso che è anche un rifugio, il bisogno di osservare con una nuova verginità impossibile.
Prelevare senza regole figure dal disordine, per proporne una sorta di “ready-made” imparziale e livellante. San Marino, con un abitato che ha dilagato in una campagna mossa ed articolata, è un habitat privilegiato per situazioni che vanno dalle architetture temporanee a secco con materiali anche di risulta, ad accumuli conservativi spesso gestiti con grande cura e reiterazioni generazionali.
Ma anche giardini decorati votivamente con un’impudicizia esplosiva figlia del benessere e dell’esuberanza del vivere, convivenze architettoniche spudorate, ritratti di automobili, bene iconico ed indispensabile; San Marino insomma come “iper Romagna”, anch’essa figlia di un certo “american way of life”, dove la vita lungo la strada si manifesta attraverso richiami e segnali identitari.
Un territorio circoscritto ma esaustivo meno strangolato da regole e normative sempre più esigenti.
Il monte Titano d’altra parte, per le sue bellezze naturalistiche e monumentali, è stato ed è ampiamente fotografato; meno indagata mi pare proprio questa realtà interstiziale, privata ma anche pubblica, prova di una vitalità creativa ed autoreferenziale: una strategia di sopravvivenza.
L'autore
Massimo Salvucci nasce inavvertitamente a Roma nel 1963, ma fugge appena possibile inseguendo studi disordinati di grafica e design. Negli anni '90 lavora come fotografo a Milano dove inizia anche la trentennale collaborazione con Gianluigi Toccafondo e l'attività per la televisione.
Fonda lo Studio Nino con lo stesso Toccafondo, Frederic Fasano ed Enrico Gusso, ed in seguito a Roma la Limbo film con Stefano Pistolini. Editor per predisposizione artigianale ma fotografo di nascita, deve molto a suo nonno dal quale purtroppo ha ereditato anche la scarsa attitudine per gli affari.
2018
Pagine 166
Versione cartacea € 15,00
ISBN 978-88-98275-76-2
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Fogli della Follia
Fortunato Duranti, romantico e visionario
di Alessandro Giovanardi e Franco Pozzi
Catalogo della mostra
Biennale del Disegno
Rimini 28 aprile - 15 luglio 2018
Artista geniale e irregolare, sedotto dalle partiture solenni di Raffaello e dalle sperimentazioni di Poussin, Pietro Testa e Salvator Rosa, il marchigiano Fortunato Duranti (Montefortino 1787-1863) si è formato nella Roma al passaggio tra l’età neoclassica e quella romantica. Alla prima appartiene per diritto di formazione e per le frequentazioni artistiche e culturali, e alla seconda sia per il suo istinto visionario sia per un’intima necessità sperimentale, dettata da un destino insieme tragico e fecondo. Uomo colto, collezionista, disegnatore prolifico, pittore di rare e delicatissime prove e mercante d’arte, Duranti si è misurato con i più rilevanti maestri del Neoclassicismo e del Purismo: in particolar modo Felice Giani e Tommaso Minardi (ma anche Palagi, Pinelli, Camuccini, Cochetti).
Arrestato ingiustamente come spia in uno dei suoi viaggi di mercatura a Vienna nel 1815, proprio nel delicato passaggio epocale dal dominio napoleonico alla Restaurazione, l’equilibrio interiore di Duranti s’incrinò irrimediabilmente, aggravandosi in seguito per la constatazione del suo insuccesso di artista e di commerciante. Dal 1840 si ritirò definitivamente nella natia Montefortino dove visse gli ultimi ventitre anni, producendo un numero vastissimo di disegni, vari per soggetto, stile e tratto, accompagnati da una scrittura fluviale e dal senso frammentario e impossibile da decifrare. Gli anni della follia sono, tuttavia, i più fertili per il suo sguardo allucinato che, dal 1820 in poi, trasforma l’adesione ai temi storici raffaelleschi e neoclassici in un’inquieta profezia della metafisica sironiana. Al contempo i continui riferimenti ai soggetti mitologici, biblici e religiosi generano un’affinità elettiva con il lucido onirismo di Johann Heinrich Füssli (1741-1825) e con il simbolismo personale e irrequieto di William Blake (1757-1827). In effetti, la sua ricerca, come quella parallela di Füssli, molto deve allo sperimentalismo anticlassico dei manieristi toscani, emiliani e veneti.
La sua solitudine nello studio turrito di Montefortino, la sua scrittura torrenziale e spezzata, priva apparentemente di un significato aperto al lettore, le sue potenti visioni grafiche di strepitosa inventiva e continuo ripensamento, evocano, inoltre, la vicenda parallela dello scrittore (poeta, drammaturgo, filosofo) Johann Christian Friedrich Hölderlin (1770-1843): li accomuna, tra le altre cose, il fascino per Salvator Rosa, maestro più volte citato dai disegni di Duranti, in significative variazioni sul tema delle Tentazioni di sant’Antonio, e col cui nome Hölderlin firma le sue carte della follia.
La mostra che unisce alcuni disegni di collezione privata con il prezioso e importantissimo prestito dalla Biblioteca Civica “Romolo Spezioli” di Fermo (90 carte di straordinaria fattura), intende seguire il tracciato critico iniziato, tra gli altri, da Roberto Longhi e Federico Zeri, e proseguito con lena da Stefano Papetti, mettendo in luce, con sguardo “arcangeliano”, la modernità inconsapevole e premonitrice di un maestro «del neoclassismo scapigliato», che si colloca, per qualità e potenza, accanto a Piranesi, Blake, Füssli e Goya tra i profeti della crisi della razionalità occidentale.
Gli autori
Alessandro Giovanardi, è docente di Arte Sacra e di Iconografia e Iconologia presso gli Istituti Superiori di Scienze Religiose di Rimini e di Monte Berico (Vicenza). È ricercatore presso l’Università Medicina Integrata Economia e Ricerca di Milano, e ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Rimini. Laureato in Filosofia all’Università di Bologna si è specializzato in Arte sacra e ha ottenuto il dottorato di ricerca in Scienze del testo/Scienze filosofiche all’Università di Siena qui ha anche conseguito il master scientifico-culturale di II livello in Estetica. È autore di saggi. Ha curato mostre.
Franco Pozzi, nato nel 1966 a Rimini dove vive, diplomato in pittura all'Accademia di Belle Arti di Ravenna espone nell'ambito di mostre collettive e personali. Nel 2007 è stato invitato in un progetto collaterale alla 52° edizione della Biennale di Venezia nell'ambito delle “100 Giornate in difesa della natura” dedicate alla figura di Joseph Beuys. Nel 2008 è ospite della XV Quadriennale di Roma. Nel 2005 partecipa al Premio Giovani artisti Lissone. Tra le mostre personali, 2005 Vegeto, Galleria dell'Immagine, Rimini, 2004 Luminitza, Chiesa di S. Marina, Novafeltria (PU), 2003 Solve et coagula, Palazzo del Ridotto, Cesena, 2000 In anticipo, Galleria dell'Immagine, Rimini. Nel 2014 partecipa alla prima edizione della Biennale del Disegno di Rimini. Convinto che la pittura, fin dalla sua leggendaria nascita narrata da Plinio il Vecchio nella Storia Naturale, si confronti col bisogno di trattenere il ricordo, negli ultimi anni (forse da sempre) costruisce memorabilia, omaggi dichiarati alle figure della sua storia dell'arte.
2018
Pagine 104
ISBN 978-88-98275-71-7
Versione cartacea € 25,00
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Catalogo della mostra
Biennale del Disegno
Rimini 28 aprile - 15 luglio 2018
Artista geniale e irregolare, sedotto dalle partiture solenni di Raffaello e dalle sperimentazioni di Poussin, Pietro Testa e Salvator Rosa, il marchigiano Fortunato Duranti (Montefortino 1787-1863) si è formato nella Roma al passaggio tra l’età neoclassica e quella romantica. Alla prima appartiene per diritto di formazione e per le frequentazioni artistiche e culturali, e alla seconda sia per il suo istinto visionario sia per un’intima necessità sperimentale, dettata da un destino insieme tragico e fecondo. Uomo colto, collezionista, disegnatore prolifico, pittore di rare e delicatissime prove e mercante d’arte, Duranti si è misurato con i più rilevanti maestri del Neoclassicismo e del Purismo: in particolar modo Felice Giani e Tommaso Minardi (ma anche Palagi, Pinelli, Camuccini, Cochetti).
Arrestato ingiustamente come spia in uno dei suoi viaggi di mercatura a Vienna nel 1815, proprio nel delicato passaggio epocale dal dominio napoleonico alla Restaurazione, l’equilibrio interiore di Duranti s’incrinò irrimediabilmente, aggravandosi in seguito per la constatazione del suo insuccesso di artista e di commerciante. Dal 1840 si ritirò definitivamente nella natia Montefortino dove visse gli ultimi ventitre anni, producendo un numero vastissimo di disegni, vari per soggetto, stile e tratto, accompagnati da una scrittura fluviale e dal senso frammentario e impossibile da decifrare. Gli anni della follia sono, tuttavia, i più fertili per il suo sguardo allucinato che, dal 1820 in poi, trasforma l’adesione ai temi storici raffaelleschi e neoclassici in un’inquieta profezia della metafisica sironiana. Al contempo i continui riferimenti ai soggetti mitologici, biblici e religiosi generano un’affinità elettiva con il lucido onirismo di Johann Heinrich Füssli (1741-1825) e con il simbolismo personale e irrequieto di William Blake (1757-1827). In effetti, la sua ricerca, come quella parallela di Füssli, molto deve allo sperimentalismo anticlassico dei manieristi toscani, emiliani e veneti.
La sua solitudine nello studio turrito di Montefortino, la sua scrittura torrenziale e spezzata, priva apparentemente di un significato aperto al lettore, le sue potenti visioni grafiche di strepitosa inventiva e continuo ripensamento, evocano, inoltre, la vicenda parallela dello scrittore (poeta, drammaturgo, filosofo) Johann Christian Friedrich Hölderlin (1770-1843): li accomuna, tra le altre cose, il fascino per Salvator Rosa, maestro più volte citato dai disegni di Duranti, in significative variazioni sul tema delle Tentazioni di sant’Antonio, e col cui nome Hölderlin firma le sue carte della follia.
La mostra che unisce alcuni disegni di collezione privata con il prezioso e importantissimo prestito dalla Biblioteca Civica “Romolo Spezioli” di Fermo (90 carte di straordinaria fattura), intende seguire il tracciato critico iniziato, tra gli altri, da Roberto Longhi e Federico Zeri, e proseguito con lena da Stefano Papetti, mettendo in luce, con sguardo “arcangeliano”, la modernità inconsapevole e premonitrice di un maestro «del neoclassismo scapigliato», che si colloca, per qualità e potenza, accanto a Piranesi, Blake, Füssli e Goya tra i profeti della crisi della razionalità occidentale.
Gli autori
Alessandro Giovanardi, è docente di Arte Sacra e di Iconografia e Iconologia presso gli Istituti Superiori di Scienze Religiose di Rimini e di Monte Berico (Vicenza). È ricercatore presso l’Università Medicina Integrata Economia e Ricerca di Milano, e ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Rimini. Laureato in Filosofia all’Università di Bologna si è specializzato in Arte sacra e ha ottenuto il dottorato di ricerca in Scienze del testo/Scienze filosofiche all’Università di Siena qui ha anche conseguito il master scientifico-culturale di II livello in Estetica. È autore di saggi. Ha curato mostre.
Franco Pozzi, nato nel 1966 a Rimini dove vive, diplomato in pittura all'Accademia di Belle Arti di Ravenna espone nell'ambito di mostre collettive e personali. Nel 2007 è stato invitato in un progetto collaterale alla 52° edizione della Biennale di Venezia nell'ambito delle “100 Giornate in difesa della natura” dedicate alla figura di Joseph Beuys. Nel 2008 è ospite della XV Quadriennale di Roma. Nel 2005 partecipa al Premio Giovani artisti Lissone. Tra le mostre personali, 2005 Vegeto, Galleria dell'Immagine, Rimini, 2004 Luminitza, Chiesa di S. Marina, Novafeltria (PU), 2003 Solve et coagula, Palazzo del Ridotto, Cesena, 2000 In anticipo, Galleria dell'Immagine, Rimini. Nel 2014 partecipa alla prima edizione della Biennale del Disegno di Rimini. Convinto che la pittura, fin dalla sua leggendaria nascita narrata da Plinio il Vecchio nella Storia Naturale, si confronti col bisogno di trattenere il ricordo, negli ultimi anni (forse da sempre) costruisce memorabilia, omaggi dichiarati alle figure della sua storia dell'arte.
2018
Pagine 104
ISBN 978-88-98275-71-7
Versione cartacea € 25,00
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Volti come paesaggi
Disegni
di Stefano Morbidelli
Catalogo della mostra
Rimini 10 maggio - 30 maggio 2016
La Passione di Giovanna d'Arco, film muto del 1928 di C.Th. Dreyer, è un grande film, un vero capolavoro cinematografico e del pensiero.
La costruzione e la qualità delle immagini ed il pathos che esse esprimono (forse per l'oggi rappresentato in modo anche eccessivo, ma non per il cinema muto, privo della possibilità di lavorare con il linguaggio) sono di altissimo livello, un vero godimento per gli occhi e per la mente.
E' forse un aneddoto quello che vuole che Dreyer, per ottenere i primissimi piani in scorcio, da sotto in su, abbia fatto scavare dalle maestranze alcune trincee all'interno delle quali faceva correre la macchina da presa su binari inquadrando gli attori in primissimi piani dal basso verso l'alto. Comunque sia, in qualunque modo abbia fatto, ha ottenuto ciò che voleva: i volti in “primissimo piano” protagonisti del film, dei veri e propri “paesaggi”, sono forti espressioni di sentimenti ed emozioni intense, e non solo di passione e di ascesi, o di dolore, di sacralità ed estasi, ma anche dei meno nobili: superstizione, odio, inganno e falsità.
Il lavoro fatto da me su queste immagini attraverso il disegno, più disegni in successione collegati l'uno all'altro, è stato quello di entrare in questi volti, ingrandirli e renderli sempre più rarefatti, “paesaggi” dove la materia non occupa più tutto lo spazio e quanto viene ingrandito porta all'esaltazione dei pieni ma anche al nulla, apparente, dei vuoti, Pathos, emozioni, passioni e sentimenti, quelli di quei volti e del film, sono via via perduti, non sono più visibili, non ci sono più simboli, e non c'è più narrazione.
Si creano altre immagini, nuove opere, con un contenuto diversamente “emozionante”. Al totale del volto rappresentato si sostituisce il dettaglio, il frammento. Ci si allontana dal mondo reale e riconoscibile e si entra in un altro mondo fatto di immagini diverse, un po' enigmatiche ed un po' segrete, un insieme di frammenti.
All'uniforme si è sostituito l'intermittente, al continuo il "discreto".
Noi, come tutto l'Universo, siamo formati di particelle, che esistono come materia e si manifestano solo quando “qualcuno” le osserva, altrimenti sono “solo” onde di energia, onde di possibilità.
Le particelle, per la fisica quantistica, non occupano una posizione precisa nello spazio se non quando qualcos'altro non interagisce con loro. Mi piace pensare che siano così anche gli oggetti, animati o inanimati che siano, e la loro immagine: non esistono se non quando vengono colpiti da uno sguardo.
Come scrive E.Canetti: “Apparentemente le immagini potrebbero esistere anche senza di noi. Ma questa apparenza è ingannevole, l'immagine ha bisogno della nostra esperienza per destarsi”.
2016
Pagine 56
ISBN 978-88-98275-29-8
Non disponibile
Catalogo della mostra
Rimini 10 maggio - 30 maggio 2016
La Passione di Giovanna d'Arco, film muto del 1928 di C.Th. Dreyer, è un grande film, un vero capolavoro cinematografico e del pensiero.
La costruzione e la qualità delle immagini ed il pathos che esse esprimono (forse per l'oggi rappresentato in modo anche eccessivo, ma non per il cinema muto, privo della possibilità di lavorare con il linguaggio) sono di altissimo livello, un vero godimento per gli occhi e per la mente.
E' forse un aneddoto quello che vuole che Dreyer, per ottenere i primissimi piani in scorcio, da sotto in su, abbia fatto scavare dalle maestranze alcune trincee all'interno delle quali faceva correre la macchina da presa su binari inquadrando gli attori in primissimi piani dal basso verso l'alto. Comunque sia, in qualunque modo abbia fatto, ha ottenuto ciò che voleva: i volti in “primissimo piano” protagonisti del film, dei veri e propri “paesaggi”, sono forti espressioni di sentimenti ed emozioni intense, e non solo di passione e di ascesi, o di dolore, di sacralità ed estasi, ma anche dei meno nobili: superstizione, odio, inganno e falsità.
Il lavoro fatto da me su queste immagini attraverso il disegno, più disegni in successione collegati l'uno all'altro, è stato quello di entrare in questi volti, ingrandirli e renderli sempre più rarefatti, “paesaggi” dove la materia non occupa più tutto lo spazio e quanto viene ingrandito porta all'esaltazione dei pieni ma anche al nulla, apparente, dei vuoti, Pathos, emozioni, passioni e sentimenti, quelli di quei volti e del film, sono via via perduti, non sono più visibili, non ci sono più simboli, e non c'è più narrazione.
Si creano altre immagini, nuove opere, con un contenuto diversamente “emozionante”. Al totale del volto rappresentato si sostituisce il dettaglio, il frammento. Ci si allontana dal mondo reale e riconoscibile e si entra in un altro mondo fatto di immagini diverse, un po' enigmatiche ed un po' segrete, un insieme di frammenti.
All'uniforme si è sostituito l'intermittente, al continuo il "discreto".
Noi, come tutto l'Universo, siamo formati di particelle, che esistono come materia e si manifestano solo quando “qualcuno” le osserva, altrimenti sono “solo” onde di energia, onde di possibilità.
Le particelle, per la fisica quantistica, non occupano una posizione precisa nello spazio se non quando qualcos'altro non interagisce con loro. Mi piace pensare che siano così anche gli oggetti, animati o inanimati che siano, e la loro immagine: non esistono se non quando vengono colpiti da uno sguardo.
Come scrive E.Canetti: “Apparentemente le immagini potrebbero esistere anche senza di noi. Ma questa apparenza è ingannevole, l'immagine ha bisogno della nostra esperienza per destarsi”.
2016
Pagine 56
ISBN 978-88-98275-29-8
Non disponibile